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Oltre il muro...

Pubblichiamo la testimonianza di Silvia Bassoli, dell’associazione “Amici di Angelo Frammartino” e partecipante al campo di volontariato a Gerusalemme dall’1 al 10 agosto 2006 presso il centro giovanile per la pace “La Torre del Fenicottero". L’articolo è presente nella sezione “Testimonianze” del numero del 15 gennaio della newsletter Comunicazioni di pace della Fondazione Angelo Frammartino.

Marhaba. Ciao. ...Helo!...Bello! Ana! E indica la semplice stringa di cuoio legata al mio polso. La scruta, la stringe, la tira con forza. Ana! Io! Sua. Una volta al suo polso, ride contento e che peso di vita quegli occhietti neri, così spontanei e penetranti, scheggiati riflessi di un bambino che ha visto molto più di quanto sia stato in grado di capire. In disparte, con le dita in bocca e due trecce spettinate, la probabile sorellina sorride dondolandosi leggermente: non un suono, ma quante parole il suo sguardo, ora diffidente, ora dispettoso, ora vivace. Si allontana contenta con un filo e qualche perlina colorata in mano, per poi ritornare a reclamare la stessa stringa di cuoio che il fratello reca al polso, ovviamente più soddisfacente! E un caos di voci, di testoline che si arrampicano, strattonano, seguono, imitano, ridono e spintonano: una bambina esibisce orgogliosa e sorridente la sua bandiera palestinese disegnata, mentre mantiene una busta di plastica nera, la stessa ritrovata la sera prima in mezzo al cortile del centro per la pace “La Torre del Fenicottero”, in arabo il “Burj Al LuqLuq”. Dentro, alcuni pezzi di pane ai semi di sesamo, tipicamente palestinese. E la sera non serve nemmeno raccogliere i materiali utilizzati durante le attività: pennarelli, cartone, palline da giocoleria, braccialetti sono già lontani dal centro, già nelle mani dei bambini o disseminati lungo i gradini di pietra bianca della Città Vecchia. Voci italiane animano la notte, tra operatori palestinesi curiosi di apprendere una lingua straniera e giovani volontari impegnati in discorsi organizzativi per i laboratori del giorno successivo. Per poi ammutolire di fronte alla doratura della cupola della Moschea di Al Aqsa, cuore musulmano di Gerusalemme, in silente competizione con la Luna, che appare leggera e imperturbabile di fronte alla violenza della vita palestinese, spettatrice delle immagini che invece angosciano la nostra mente: i militari israeliani, con il loro fiero intimorire e i loro fedeli mitra in bella vista; il grigiore delle reti dei check point, la freddezza metallica delle voci inglesi che urlano alle donne in fila di passare tra le sbarre e di esporre i documenti, incuranti delle incomprensioni, ma molto attente ad agitare i cuori; l’indifferente invasione del muro, che con i suoi 9 metri di altezza, schiaffeggia l’orgoglio e la dignità del popolo palestinese; i cumuli di rifiuti in lenta ed inesorabile espansione per le strade della Città Vecchia, intrisa di profondità storica; il degrado dei campi profughi dove si sopravvive, a stento e secondo la legge della violenza. Cielo nero. Neri gli occhi dei bambini che la quotidiana durezza di vita non consente loro di essere. Giocano? Si, alcuni disegnano girotondi spensierati a ritmo di filastrocche arabe, ma tra i più piccoli no, non si gioca. Solo spinte e botte. Il gioco della lotta è alimentato dall’ira, inconscia, abituale, repressa e così sfogata. Cade a terra, lo stesso bambino che si era guadagnato con la forza il posto nella fila per il percorso ad ostacoli, poi si rialza rabbioso e si scaglia contro il compagno che ha prevalso un attimo prima. Avrà 7 anni. Il doppio della sorellina, probabilmente, che invece sorride tra i capelli arruffati e polverosi. Si è appollaiata e non scende dalla mia schiena, vuole vorticare in aria, rapida. Questa bambina vuole volare. Ha una crosta in viso e un disperato bisogno d’affetto. “Alcuni - dice Fadi, uno degli operatori del centro - hanno subito abusi sessuali”. Ma in fondo, questo mondo è ferito da continua violenza. La stessa che segna il braccio di quel bimbo che si taglia con i vetri.
Dagli altoparlanti riecheggia il richiamo alla preghiera serale. I bambini sono perspicaci, ardua impresa terminare le attività. Le emozioni si stemperano confondendosi tra i vapori del the alla menta arabo, le parole viaggiano da un mondo all’altro, lo sguardo incredulo sfiora gli alti palazzi della caotica Gerusalemme ovest, israeliana, mentre un autobus corre tra le luci di una strada perfettamente asfaltata, lo stesso autobus che esplode con periodica tragicità, come esplode la rabbia degli israeliani. Mi chiedo quale terrore abbia più valore, o quale ira meriti maggiore considerazione, mi chiedo quale peso possa avere la scritta sul muro di Ramallah, città di amministrazione palestinese, “To Live is to Resist” e contemporaneamente quale sia il peso della verità all’uscita del check point israeliano di Betlemme, dove troneggia a caratteri cubitali “La pace sia con te”. Leggero il peso di Angelo che con un salto centra il canestro: sulle sue spalle un piccolo campione del basket sorride al suo momento di gloria.
Ali Rashid scrive “In una guerra non ci sono né vinti né vincitori, perchè ognuno perde se stesso” . Violenza e vendetta avviano una spirale che confonde tutto il resto, la guerra non porta che sofferenza, da ogni lato del muro. E non è certo un muro a poter contenere l’Umanità.

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